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Paesaggio industriale: le risaie del vercellese

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Le risaie del vercellese: un paesaggio rurale unico in cui l'acqua è l'elemento dominante

Venerdì 7 maggio abbiamo ricominciato la stagione delle visite, ostacolata, negli ultimi tempi, dalle note vicende COVID. Non è stato agevole raggruppare appassionati di paesaggio industriale sparsi un po’ per tutto il nord Italia ma, alla fine, il veloce esperimento di riapertura delle attività di TrattoPunto si è concluso con il riappropriarsi di quella parte di socialità che è parte integrante del viaggio, della scoperta di valori culturali e territoriali, anche di patrimonio industriale che, per troppo tempo, ci sono mancati davanti alle schermate delle varie piattaforme per lo smart-working.

Siamo quindi di nuovo in pista, pronti ad organizzare altre visite dallo spiccato carattere fotografico e anche per proporvi qualcosa di diverso, per questo però, seguiteci!

Qui di seguito, vi proponiamo il testo di Vito Lupo, che ci ha accompagnato nel tour fotografico del vercellese e che racconta questa particolare porzione di ambiente a nord ovest d’Italia, dal suo punto di vista, di storico e fotografo.

"Per il fotografo il grande specchio della risaia è un’illusione fragile e temporanea, basata su pochi palmi d’acqua in grado di riflettere nientemeno che la Storia. Questa secolare specializzazione idraulica del basso vercellese lo ha reso un paesaggio particolare: una vera e propria isola d’acqua che ogni anno appare quasi improvvisamente attorno alla prima metà di aprile e gradualmente si dissolve con il progredire dell’estate, cancellata dal naturale crescere del suo cereale: quell’ oryza sativa, una semplice graminacea da cui sono dipese le sorti di luoghi, città e centri minori e di intere generazioni di loro abitanti. Ne deriva un paesaggio a tempo che condiziona in maniera massiccia, articolata, sia la sua struttura socio-economica, sia la sua percezione visiva.

Intendiamoci: ogni paesaggio agrario è sempre un paesaggio a tempo, soggetto com’è ai cicli delle colture e del clima; tuttavia, nel caso del vercellese risicolo, l’elemento dominante e fondamentale è l’acqua, presente materialmente e visivamente come in nessun altro contesto rurale. E proprio la contrapposizione fra l’acqua percepita come superficie e l’acqua percepita come linea è il motivo ricorrente, unificante, che fa di questo paesaggio un unicum non facilmente riscontrabile altrove.

Occorre dire che la coltivazione del riso non è esclusiva dell’area oggetto di questo studio, essendo ampiamente praticata nelle contigue aree del basso novarese e della Lomellina. Anche in rapporto a queste aree, comunque, il comparto vercellese si distingue per le rimarchevoli vicende storiche che ne hanno plasmato il carattere: vale a dire la sorprendente continuità fra la sua vocazione idraulica, già attestata al sorgere dell’era volgare (ne furono testimoni Polibio e Strabone), sino agli inestricabili intrecci fra unificazione nazionale e primo capitalismo agrario - di cui il Cavour ne fu l’artefice principale - passando per la lunga parentesi benedettina.

Il basso vercellese si connota pertanto come un paesaggio dalla forte suggestione visiva che fonda la sua vocazione economica su infrastrutture agrarie e produttive di prim’ordine caratterizzandosi come un territorio d’eccellenza fra i più antropizzati della pianura padana. Un’antropizzazione che si estende dalle polle sorgive più marginali (e minimali) alle varie gerarchie dei canali irrigui, sino ai grandi bacini di laminazione delle acque, coinvolgendo in questo trasferimento continuo da una scala di grandezza ad un altra,  uomini, cose e luoghi. Un’antropizzazione legata a due fiumi importanti, quali il Po e la Dora Baltea.

Il Po, in particolare, attraverso il canale Cavour è stato in grado di creare, similmente al suo grande delta proteso nell’Adriatico, un piccolo delta interno che si ramifica nella pianura vercellese e novarese per poi riconfluire in sé stesso poco prima di incontrare il Ticino, creando paesaggi affini a quelli polesani. E, come per il Polesine, la diffusa meccanizzazione e le nuove tecniche agrarie introdotte a partire dall’ultimo dopoguerra hanno portato a spopolamenti irreversibili, a perdite di saperi e riferimenti spaziali lasciandovi enormi vuoti, non più colmabili: si tratta di cascinali, peste da riso, agglomerati fantasma, villaggi coloniali, palazzi nobiliari decaduti sorpresi nei loro ultimi anni di integrità, ruote idrauliche ridotte a bizzarri scheletri circolari. Spicca, in tale contrasto, la tenuta cavouriana di Leri, il cui profondo stato di abbandono può essere letto come una metafora a più voci dei nostri tempi. E poi chiese dalle porte sprangate, perché spesso profanate, che attestano con le loro eccessive dimensioni e con la loro inopportuna presenza in questi luoghi deserti, il passato popolamento di queste terre. E cimiteri. Tanti e diffusi, particolari anch’essi. Exuvie di cimiteri perché, qui, a meno di un’ora d’auto da Torino e da Milano e tuttavia lontanissimi, muoiono anche i cimiteri, svuotati dalle esumazioni, dimenticati dallo sbiadirsi di antichi legami familiari. Diventano isole che l’umidità di risalita della risaia e le instancabili maree del vuoto corrodono gradualmente.

In questo vuoto, peraltro traboccante di una identità che aspetta di essere rivelata prima del suo definitivo dissolversi, è un alternarsi di emergenze architettoniche di diverse epoche storiche - dalle realizzazioni risalenti ai benedettini, alle centrali termoelettriche di ultima generazione - che si ergono isolate, autoconcluse nello spazio.

Epoche storiche che diventano oggetti definiti, manufatti, luoghi. Diventano spazio, volumi, ombre che entrano in contatto visivo con altre epoche: perché qui, molto più che altrove, l’acqua apparentemente immobile della risaia raddoppia il tempo, riflettendolo, rallentandolo.

Questa continua metamorfosi di acqua e terra è, a modo suo, una sorta di calendario che passa senza soluzione di continuità dallo stato solido a quello liquido nel susseguirsi delle stagioni; una metamorfosi che ha il suo contrappunto nella continua trasformazione di questo fluido duttile in una geometria fatta di linee e di superfici, di fontanili profondi e di bacini lamellari.

Nell’isola d’acqua spicca l’insularità dei grandi cascinali del passato, siano essi dipendenze monastiche riplasmate dai fabbisogni produttivi o di altra origine. Questi grandi cascinali, quasi sempre a corte chiusa, conservano ancora in parte l’autosufficienza degli impianti abbaziali e sono caratterizzati, negli anni a cavallo fra XIX e XX secolo, da una marcata interscambiabilità con le architetture del coevo capitalismo industriale."

Photo credit: Vito Lupo

Un paesaggio rurale unico in cui l’acqua è l’elemento dominante

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