Sulla sponda orientale della laguna di Sant’Antioco, uno dei luoghi geografici più interessanti della Sardegna, si erge la Centrale Termoelettrica di Santa Caterina: vera e propria pietra miliare e porta di una regione che, alla fine degli anni trenta, aveva individuato nell’industria mineraria la nuova frontiera per il proprio riscatto economico.
L’impianto di Santa Caterina, inaugurato il 28 ottobre 1939, fu costruito su di un appezzamento di terreno di 12 ettari nel comune allora denominano Palmas Suergiu (San Giovanni Suergiu, dal 1952); la posizione della centrale doveva soddisfare 4 condizioni:
- vicinanza al mare per poter facilmente prelevare e restituire l’acqua necessaria al raffreddamento dei condensatori;
- posizionamento in una zona ad elevata richiesta di energia elettrica;
- vicinanza alle miniere così da ridurre al minimo gli oneri del trasporto del carbone;
- posizionamento sulle linee del trasporto del combustibile dalle miniere al porto carbonifero di Sant’Antioco.
La centrale di Santa Caterina serviva per rifornire di energia elettrica tutti i centri di nuova fondazione a servizio delle miniere (Carbonia in primo luogo, Cortoghiana, Bacu Abis), fu la prima centrale, in Italia, costruita per bruciare combustibile nazionale polverizzato con apparecchiature e macchinari per la quasi totalità forniti dall’industria italiana.
L’edificio principale raggruppa tutte quelle funzioni necessarie al funzionamento della macchina centrale termoelettrica: la sala macchina, la sala caldaie, la sala distillatori, la sala quadri e il corpo degli uffici.
Poco distanti dal corpo di fabbrica principale ritroviamo una serie di locali ordinatamente disposti, destinati a depositi, serbatoi per l’acqua potabile, officine e autorimesse. Ai margini del sito, in successione lungo il confine: la foresteria, la casa del guardiano, quella del capo centrale, dei capiturno, e in fine i dormitori del personale e la mensa: piccoli edifici disseminati nel sito in mezzo al verde, e collegati fra di loro e alla centrale da una strada interna.
L’edificio della centrale è costituito da quattro corpi di fabbrica di diversa altezza. Il corpo principale, alto 35 metri, alloggiava rispettivamente i silos per il carbone in arrivo, i mulini per la macinazione della materia prima e i generatori di vapore. Nel secondo corpo, trovavano corpo i degassatori, i distillatori e depuratori per il trattamento dell’acqua da pompare, nel terzo corpo dove erano posizionati i turbo alternatori, le cosiddette “turbine”. L’ultimo corpo comprendeva la sala quadri, gli accumulatori, le cabine di trasmissione, i servizi per gli impiegati (comprensivi di pronto soccorso), il laboratorio chimico ed un magazzino. Dopo il 1950 l’impianto venne ampliato con la costruzione di una quinta unità.
Il carbone necessario per il funzionamento della centrale proveniva dal vicino bacino di Carbonia; i collegamenti commerciali erano assicurati dalla linea ferroviaria, gestita dalle Ferrovia Meridionali Sarde (costruita negli anni ’30, in esercizio fino al 1974) che posizionava S. Giovanni Suergiu al centro di una rete che univa Iglesias, Siliqua e Calasetta proprio per favorire la mobilità di materie prime.
Per soddisfare al fabbisogno orario della centrale, (circa 50 tonnellate orarie) fu costruito un impianto di trasporto del carbone dai vagoni ai silos (con un interessante sistema di carico) della capacità doppia di quella del fabbisogno orario. Per prelevare l’acqua marina, altra materia prima utilizzata dalla centrale, fu dragato un canale di carico della lunghezza di 28 metri e della profondità media di circa 1,80 metri.
L’acqua, introdotta in centrale in apposite vasche di carico, passava alle pompe di raffreddamento per i condensatori. Una parte dell’acqua di scarico dei condensatori era utilizzata per scarico delle scorie, la rimanente veniva immessa, per mezzo di un canale nel vicino stagno di Santa Caterina.
Nelle vicinanze della centrale trovavano posto i locali destinati a deposito, serbatoi per l’acqua potabile, officine e rimesse. Erano presenti tre fabbricati ad uso abitazione (direttore, capo centrale, maestranze di veloce reperimento), la foresteria, la casa del guardiano, la mensa e i dormitori. Il personale rimanente trovava alloggio direttamente in paese.
Con questo impianto la centrale entrò in servizio e rimase in esercizio sino ai danneggiamenti subiti dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. L’impianto rientrò in servizio, con due sole caldaie sin dal luglio del 1943. Con i piani di ricostruzione però, sin dal 1950 l’impianto raggiungeva la sua massima operatività con l’installazione di una quinta caldaia (gli impianti silos caldaia erano indipendenti uno dall’altro). La produzione si contrasse a partire dal 1958, in seguito, con l’entrata in funzione della Centrale del Sulcis (Portovesme), l’impianto divenne “riserva” ed attivato in caso di fuori servizio delle altre centrali della rete. Con la nazionalizzazione delle aziende produttrici di energia elettrica e l’istituzione dell’ENEL terminava la vicenda della Società Elettrica Sarda, anche la centrale di Santa Caterina cessò la produzione nel 1964 e venne chiusa definitivamente nel 1966.
Da allora la centrale termoelettrica di Santa Caterina verte in stato di abbandono, nonostante il Comune abbia lanciato alcune iniziative che ne prevedono il riuso.
Photo credit: Michela Biancardi e Roberto Marini
Una “Cattedrale dell’industria” che ben rappresenta, nella sua imponenza, lo sviluppo industriale del Sulcis